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ECONOMIA / Centro Storico

LA CITTÀ CHE MUORE | Tra i negozi che chiudono in centro anche grandi marchi: cercasi disperatamente soluzioni

L'allarme di Confimprese: sette esercizi commerciali abbasseranno la saracinesca tra fine 2023 e inizio 2024 tra centro storico e cinta esterna

Niente catastrofismi inutili e nocivi per la città, questo sia chiaro. Ma la verità va raccontata sempre, anche quando può essere spiacevole. Nei giorni scorsi, sui social, sono stati molti i viterbesi che hanno manifestato perplessità riguardo la notizia – rilanciata dalla nostra testata - di una possibile mini-ondata di chiusure tra gli esercizi commerciali del centro storico. Ebbene, purtroppo l’indiscrezione è vera e si confermerà tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024, quando i negozi in questione cominceranno a chiudere i battenti. Quattro sono certi, tra cui lo store di un noto marchio d’abbigliamento al Corso. Una brutta mazzata per la "vecchia città", alle prese con un contesto di crisi economica che non ha precedenti nell’epoca recente. Nemmeno l’annus horribilis del 2012, che fece da spartiacque per l’imprenditoria del territorio, aveva toccato queste vette: stipendi da fame (i più bassi d’Italia), prezzi triplicati, rincari assurdi del costo della vita, inflazione galoppante e mercato immobiliare schizofrenico, con listini altalenanti sia per le vendite che per gli affitti. Un cocktail da overdose per una microeconomia come quella cittadina, che infatti – ahinoi – inizia a subirne gli effetti. 

A spiegare cosa sta accadendo, ai microfoni di ViterboToday, è Gianfranco Piazzolla, stimato commercialista cittadino nonché presidente di Confimprese: “Ci saranno diverse chiusure tra centro storico e cinta fuori le mura, nelle immediate vicinanze. Per noi questa distinzione non esiste, perché il centro non è solo ciò che è dentro le mura ma anche quel che sta nelle pertinenze”. Diverse, ma quante? “Tre pratiche, di cui due relative proprio al centro, le stiamo già portando avanti – spiega Piazzolla – ed altre quattro saranno avviate nelle prossime settimane, ma c’è riserbo perché alcuni intendono tentare di cedere le attività”. Per motivi di privacy, dunque, non possono essere fatti i nomi dei negozi che chiuderanno. “Vedrete man mano”, annuncia sibillino il numero uno di Confimprese. C’è chi vuol vendere i beni strumentali o magari tutta l’azienda, avviata da anni e costruita con litri di sudore: “Per questo – espone il tributarista - una parte dei commercianti coinvolti sta cercando di tirare avanti altro un altro po’”. Tuttavia, ci sono anche delle aperture: “In via Garibaldi un giovane ha aperto una fumetteria”. Il problema è il saldo tra inaugurazioni e saracinesche abbassate: “Mi piange il cuore dirlo, ma è negativo”. 

Insomma, le proiezioni sono queste. E, perlomeno su queste, non si può barare, cercando di mistificare la realtà. L’economia non è una scienza esatta ma un costante susseguirsi di studi che si basano soprattutto sulle previsioni, sul monitoraggio degli indicatori e sull’interpretazione di questi per capire cosa potrebbe accadere in futuro. La situazione, in questo momento, ci racconta di una Viterbo in preda ad un periodo difficile, dove gli indicatori sono fuori controllo e le stime sono tutto fuorché rosee. “Non possiamo – aggiunge Piazzolla -  additare i Comuni che non fanno programmazione, non è colpa dei sindaci se su 100 euro un imprenditore ne va a pagare 70 e con 30 non può campare. È una questione matematica. Ad ora, avere un volume d’affari grosso a Viterbo è complicato. Questo in base ai ricarichi che devono essere applicati col fatto che c’è una sproporzione pazzesca tra la zona nord e il centro storico, con la prima che rappresenta una bella concorrenza per la seconda”. 

“Non ce la possiamo prendere coi sindaci – ribadisce il commercialista -. Se non sei forfettario oggi il peso dei contributi più le tasse può arrivare al 68 percento. Con i prezzi triplicati e queste prospettive, come diavolo fai ad allevare una famiglia o anche solo pensare di farlo?”. Piazzolla ci tiene a raccontare quel che accade quotidianamente: “Vedo piani di microcredito bocciati anche per rischi di 2-3mila euro perché l’80% lo garantisce la banca”. Nessuno sembra immune: “Dentro i negozi viterbesi che assistiamo ci sono famiglie che da generazioni fanno i negozianti, noi abbiamo anche esercizi storici in crisi. Il costo del lavoro è elevato, con i contributi che sono 4mila euro l’anno se va bene, vale a dire mille ogni tre mesi. Per avere un ritorno e rientrarci devi avere un giro di clienti molto intenso che vengano ogni giorno a fare spesa. Gli indicatori dei consumi sono in crollo”. 

I negozi scompaiono dal centro: saracinesche abbassate ovunque

Per l’esperto il problema è anzitutto il regime fiscale italiano, divenuto rigido e stringente come una corda alla gola degli imprenditori. “Le cose devono cambiare a livello centrale, basta con l’aggressione dello Stato alle partitie Iva”, sostiene. E il Comune, quindi, ha un raggio d’azione limitato: “Si potrebbe pensare ad una programmazione della vita in centro, ma resta il fatto che oggi non conviene fare impresa. Incentivare la gente ad entrare purtroppo non cambierà le sorti delle aziende, dopo la pandemia i parametri sono cambiati: inflazione, caro energia e prezzi che sono lievitati e rimasti altissimi pur calando l’inflazione. Inoltre, i tassi creditori rispetto ai tassi debitori che danno banche hanno una forbice sbilanciata. Far venire persone significa rivitalizzare il centro ma, rispetto alle politiche di anni fa, abbiamo una proliferazione del commercio di grande distribuzione, aumentato 40-50%. Una serie di esercizi che hanno aperto ed hanno prezzi molto diversi rispetto ai piccoli negozi”. 

E quindi, l’annuncio che bisognerebbe scrivere a caratteri cubitali per i vicoli della Vetus Urbs è uno solo: AAA soluzioni cercasi. E disperatamente, per giunta. “Una di queste – propone Piazzolla - potrebbe essere la Zes, la zona economica speciale. Noi dovremmo crearne una particolare, una Zep, perché sulle Zes decide l’Unione Europea, in accordo con la Regione Lazio ed il governo per perimetrare un’area, la nostra, rimasta a bocca asciutta per via dell’alto Pil di Roma”. Ad oggi, infatti, Viterbo è rimasta tagliata fuori dalla Zes e non può usufruirne. “Rieti ha già delle fasi agevolative a causa della sciagura del terremoto e sia Frosinone che Latina sono nelle nostre condizioni, con la differenza che loro sono vicine al Sud e quindi sulla linea del Mezzogiorno, dove finisce la Zes a Caserta. Noi siamo fuori e dimenticati”. 

Insomma, al massimo Chiara Frontini potrebbe stimolare la Pisana a prendere in considerazione questa ipotesi, per rendere la Tuscia più appetibile nel settore artigiano ed industriale. Altrimenti, di chiusure ce ne saranno altre. Anche più dolorose di quelle che avverranno a cavallo tra questo e il prossimo anno. Sempre più negozi si spegneranno, e con loro l’anima della città, la sua storia, il suo cuore pulsante. Un rischio che Viterbo non può correre, perché altrimenti si rischierebbe la recessione, sinonimo di morte civile in un Occidente in cui o sei all’interno del circuito globalista oppure sei un’exclave del Terzo Mondo. 

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